Ogni asana è una porta. Alcune si spalancano verso il corpo, altre si aprono alla mente.
Ogni postura mi parla in un modo diverso. A volte mi sfida, altre mi calma.
Il Viaggio Invisibile Tra La Seconda E La Terza Serie… Attesa, Ascolto e Trasformazione
Mysore, qualche anno fa, un giorno come un altro in shala, saranno circa le 10:30. Ho fatto la mia pratica, ho assistito il mio insegnante aiutando nella pratica degli altri studenti. Vado a fare colazione.
Realizzo che è oramai da qualche tempo che pratico la seconda serie completa e attendo che mi venga assegnata la prima asana della terza. No, lo so bene, sono quattro mesi che ho completato la seconda serie.
Quattro mesi a Mysore, di pratica, dedizione, studio e assistenza in shala quotidiani.
Non si fa… e in effetti non l’avevo mai fatto prima, né l’ho più fatto dopo.
Però quel giorno sono tornato in shala e, mentre facevo due chiacchiere con il mio insegnante, l’ho buttata lì:
“Ma… la postura successiva?”
Le sue parole mi hanno fatto capire che la mia pratica stava diventando più avanzata di quanto non pensassi. Ma non perché il mio corpo potesse assumere posizioni “instagrammabili.”
“Credevo saresti venuto un paio di mesi fa a chiedermelo.” Fu l’inizio della sua risposta.
Per me una sorta di conferma che non ero attaccato alle asana, che la mia pratica stava andando oltre le sole posture fisiche.
Trascorrere anni in una shala di Ashtanga a Mysore significa confrontarsi quotidianamente con corpi, menti e storie molto diverse, che provengono da tutto il mondo. A volte ispirano. Altre, mettono in discussione.
Non sono mai stato particolarmente legato alle asana, né attratto dalle acrobazie corporee – anche perché non sono flessibile né naturalmente portato. Sono tornato allo yoga in età adulta, oltre i trent’anni, spinto da una ricerca spirituale più che da ambizioni fisiche. Ed è con questo approccio che mi sono avvicinato all’Ashtanga Vinyasa Yoga.
Come nella vita, anche sul tappetino a volte è difficile non guardarsi intorno. È difficile non confrontarsi.
Così può capitare di percepire uno scarto apparente: quella postura che a te ha richiesto anni per essere digerita, qualcun altro la attraversa con grazia e naturalezza al primo tentativo.
Non è solo questione fisica: è la traiettoria invisibile dell’esperienza.
Ricordo un ragazzo arrivato in shala, probabilmente aveva praticato solo guardando qualche video online. Mentre lo assistevo durante Utthita Hasta Padangusthāsana, sollevò la gamba ben oltre il portarla davanti a sé, fino a una spaccata verticale, con disinvoltura. E mi chiese:
“Ma come si fa?”
La perfezione del gesto era lì, ma la domanda rivelava tutto.
Un’asana non è il punto d’arrivo. È un punto passaggio.
C’è chi arriva da lontano e ha già camminato molto – forse non solo in questa vita.
Noi vediamo solo un frammento di quel percorso. Come se rimanessimo fermi in un punto a osservare lo scorrere di un fiume. Ma quel fiume, in fondo, è anche il nostro.
Il confronto, se consapevole, può nutrire. Può ispirare. Farci riconoscere la strada già percorsa o intuire quella che ci attende.
Ma quando nasce da un senso di insicurezza, può diventare veleno. Alimenta gelosie, invidie. Si insinua una voce sottile che sussurra:
“Io non sarò mai abbastanza.”
E allora, anche dopo anni di pratica, può emergere un senso di inadeguatezza. Non solo legato al corpo. Qualcosa di più profondo: il dubbio di non valere, di non essere all’altezza, di non meritare il proprio posto – sul tappetino o nella vita.
È un pensiero silenzioso ma insistente. Un’autocritica costante, che ci fa dimenticare quanti passi abbiamo già fatto.
Ma proprio in quel momento di frizione, da quello sguardo critico che inizialmente ferisce, può affiorare qualcosa di prezioso.
Perché quella fragilità non è un errore del cammino: è il cammino stesso.
Lo yoga, come la vita, non ci chiede di essere perfetti, né di raggiungere traguardi esteriori.
Ci chiede presenza. Continuità. Onestà.
E allora ogni difficoltà, ogni confronto, ogni dubbio può trasformarsi in occasione di crescita.
La pratica quotidiana diventa un terreno fertile per l’auto-osservazione e la trasformazione.
Non crescita intesa come accumulo di successi, ma come liberazione graduale da ciò che ci separa da noi stessi. Comprendere da dove viene il nostro agire. Vedere con più chiarezza.
In questo senso, il confronto diventa specchio: non per giudicare, ma per riconoscere.
Riconoscere la nostra strada, le nostre ferite, le qualità che stiamo coltivando.
E riconoscere negli altri non un termine di paragone, non rivali, ma compagni di viaggio, ciascuno con la propria traiettoria invisibile.
Così anche il senso di inadeguatezza può sciogliersi.
Non perché abbiamo finalmente raggiunto qualcosa.
Ma perché abbiamo imparato a restare.
A sentire che ciò che siamo, qui e ora, è già sufficiente.
Anche quando le cose non avanzano.
Anche quando sembra che non bastiamo.
A volte basta guardarsi con gli occhi con cui si osserva un prato fiorito:
nessun fiore è fuori posto. Alcuni sbocciano prima, altri resistono più a lungo.
La bellezza di uno non oscura quella dell’altro.
Semplicemente coesistono. E fioriscono, ciascuno a suo modo—unico e insostituibile.
Intanto, in India, i giorni continuano a passare, le settimane, altri quattro mesi…
Mysore, qualche anno fa. Un giorno come un altro in shala, saranno circa le 7:30.
Sto terminando l’ultima asana della seconda serie.
Il mio insegnante mi guarda. Fa cenno di aspettare.
Una nuova postura mi viene assegnata.
Non c’è solennità, nessun applauso, nessuna fanfara. Solo quel gesto essenziale, asciutto, che nella sua semplicità dice tutto:
Non si tratta mai soltanto della postura.
È il percorso a prepararti.
È la pratica quotidiana – silenziosa, imperfetta, ostinata – a costruire quello spazio in cui qualcosa può essere ricevuto.
Non come premio.
Non come conquista.
Ma come seme.
Le regole dell’Ashtanga non sono gabbie: sono strumenti.
Il rigore non è punizione: è contenitore.
Ma se perdiamo il contatto con il principio profondo che sostiene la pratica — un principio che può essere condiviso solo da un insegnante che lo incarni, lo custodisca e lo renda vivo — tutto ciò che resta sono forme vuote.
Oggi, quando insegno o pratico, non cerco la performance. Cerco la presenza.
Cerco l’intenzione che anima il gesto.
Cerco lo spazio tra un’asana e l’altra – quel territorio invisibile in cui si compie la trasformazione.
Non siamo qui per fare tutte le posture.
Siamo qui per diventare la persona che, nel tempo, può accoglierle con onestà.
E quella persona cambia. Quel corpo cambia.
Ogni giorno è una nuova possibilità di ascolto.
Otto mesi per una postura? No.
Otto mesi per diventare la persona che poteva accoglierla.
Non è una questione di forma, ma di spazio.
Lo spazio che si era aperto dentro.
Om shanti, shanti, shanti
‘La Tua Pratica Riflette Il Tuo Essere, La Tua Vita Riflette La Tua Pratica‘