GLI YOGASutra di patanjali

Samadhi Pada • sutra 32

तत्प्रतिषेधार्थमेकतत्त्वाभ्यासः ॥१.३२॥
tat-pratiṣedha-artham-eka-tattva-abhyāsaḥ ॥1.32॥
Questi (tat) sono rimossi (pratiṣedha-artham) mediante la pratica (abhyāsaḥ) di un unico principio (eka-tattva).
Commento
Dopo aver elencato gli ostacoli che disturbano la pratica (sutra 1.30) e le manifestazioni che li accompagnano (sutra 1.31), Patañjali suggerisce ora un rimedio semplice ma profondo: focalizzarsi su un unico principio.

Il termine eka-tattva-abhyāsaḥ non va inteso come una chiusura verso la varietà dell’esperienza, ma come invito a coltivare la stabilità attraverso la continuità. Significa orientare l’intero campo della coscienza verso un’unica verità, un principio fondante, qualcosa di così stabile e significativo da poter costituire un punto fermo nel caos degli stati mentali fluttuanti.
Tuttavia, questo principio può assumere forme diverse a seconda del percorso individuale: per alcuni sarà il respiro consapevole, per altri il suono di un mantra, per altri ancora un oggetto meditativo o un insegnamento cardine come ahimsa.
Non si tratta tanto di moltiplicare tecniche o oggetti di attenzione, quanto piuttosto di scegliere una via e perseguirla fino in fondo, con costanza e sincerità. L’unità (eka) non è una chiusura ma un’ancora. Nel turbine delle distrazioni, Patañjali consiglia la concentrazione unificata. È come stringere tra le mani una sola corda in mezzo alla corrente: più forte è la presa, più ci si stabilizza, più si allontanano (pratiṣedha) i fattori che turbano la mente (citta-vikṣepaḥ).

Il termine artham indica che questa pratica ha uno scopo preciso: non è meditazione fine a sé stessa, ma è rivolta alla trasformazione. Non basta esercitarsi: bisogna sapere perché si pratica e dove si è diretti. La chiarezza dello scopo dà direzione alla ripetizione e ne moltiplica la forza. Nessun vento è favorevole ad una barca che non ha direzione.

Infine, la bellezza di questo sutra sta anche nella sua apertura: eka-tattva non viene definito. È lasciato aperto alla scoperta personale. Il testo non impone un oggetto unico, ma richiede che la mente si unifichi.
Nella tradizione hindu esiste il principio dell’iṣṭa-devatā (divinità prescelta, o divinità amata), secondo cui ogni praticante si rivolge alla forma del divino che sente più vicina: una divinità personale scelta non per dogma, ma per affinità interiore. Solo ciò che ti parla intimamente può diventare veicolo del sacro. L’apertura di questo sutra ricorda molto quella di questo approccio: non impone un oggetto unico, ma lascia spazio a una scelta personale, radicata nella profonda risonanza del cuore.

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